La mia traduzione integrale dei 191 sonetti di Du Bellay I rimpianti è stata pubblicata dalle Edizioni Archivio Dedalus, con testo francese a fronte. La prefazione è di Fabio Scotto, le note sono state scritte da me e da Giusi La Grotteria. Fabio Scotto scrive, fra l'altro, a proposito della mia traduzione, che "Paola
Magi ci offre una meritoria traduzione integrale di notevole impegno (…) un lavoro di apprezzabile coerenza e rigore che restituisce nella
riscrittura le modalità stilistiche ed espressive dell’originale senza
cancellarne del tutto la patina del tempo".
Trascrivo qui il testo di quarta di copertina:
Joachim Du Bellay (Liré 1522? – Parigi 1560) fu
uno dei fondatori della Pléiade insieme a Pierre De
Ronsard. Ne La Deffence et l’Illustration de la langue
francoyse volle dare una base teorica alle aspirazioni
dei poeti della Pléiade. Questa è la sua più celebre
raccolta di sonetti, scritti durante e dopo il viaggio a
Roma, al servizio dello zio Cardinale Jean Du Bellay. Joachim abbandona il petrarchismo della sua
precedente raccolta, l’Olive, per cercare una poesia
meno levigata ma più autenticamente sentita, che
unisce la satira con l’elegia. Come scrive Henri
Chamard, “era la totale rinuncia ai sogni di un tempo, il voluto oblio delle prescrizioni della Deffence,
l’abbandono della poesia colta: ma era anche la scoperta originale della poesia personale e sincera”.
Du Bellay è considerato il più importante poeta
francese del Cinquecento dopo Ronsard. Questa è
la prima traduzione italiana integrale dei Regrets.
Ecco la dedica che apre la raccolta:
Al Signore D’Avanson,
Consigliere del Re nel suo Consiglio privato
Se non ho più il favore
della Musa,
E se i miei versi paiono
imperfetti,
Il luogo, il tempo, l’età
in cui li ho fatti,
E i miei dolori saranno di
scusa.
Ero a Roma nel mezzo della
guerra,
Uscivo già dall’età più propizia,
Ai miei affanni cercando
riposo,
Non per lode o favore ricercare.
Così si vede quello che
alla piana
Pungola il bue o lavora al
bastione,
Rallegrarsi, e con verso
senz’arte
Darsi coraggio a reggere la
pena.
O quell’altro, che sopra la
galera
I flutti fa schiumare tutto
intorno,
I tristi canti accorda con
il remo,
Per sentire la voga più
leggera.
Pare che Achille,
masticando l’ira,
Di gioie simili si
dilettasse,
Per addolcire le memorie tristi
Dell’amante, al vibrare
della lira.
Così leniva della sua il
rimpianto
Perduta, aimè, per la
seconda volta,
Quello che un tempo alle
rocce e alle selve
Dell’arpa Tracia fece udire
il canto.
Così mi fa la Musa a questa
piaggia,
Dove languisco da casa
bandito,
Più lieve il morso del
triste momento,
Sola compagna al mio lungo
viaggio.
Fra gli allarmi la Musa
solamente
Sta salda e non si sbianca
di paura:
Fra gli affanni la Musa
solamente
Smorza la pena, asciuga i
nostri pianti.
Da lei ricevo il riposo e
la vita,
Lei m’insegna a non essere
ambizioso,
Da lei ho i doni santi
degli Dei,
Lo sprezzo della sorte e dell’invidia.
E lei sa pure, avendo
dall’infanzia
Del mio piacere sempre
retto il corso,
Che non la cupidigia ma il
dovere,
Mi trattiene lontano dalla
Francia.
Vorrei (ché per seguire la
mia Musa
La schiena caricai di
povertà)
Non essermi attardato in
quel cammino
Che porta alla sorgente di
Medusa.
Ma come fuggirei quelle sorelle?
Me ne ha sedotto il canto
ammaliatore,
E le attrattive in cui m’hanno
tenuto
Con dolce nodo mi strinsero
l’ali.
Non altrimenti da una dolce
forza
I compagni d’Ulisse erano
avvinti,
Immemori dei travagli
obliati
E amanti il frutto ch’era
loro esca.
Colui che d’una amorosa
bevanda
Gustò il veleno insano
dolce-amaro,
Sa
il male suo e, costretto ad amarlo,
Segue il legame che lo
tiene schiavo.
Per questo amo la dolce
poesia
E il dolce colpo da cui fui
ferito:
Dalla culla la Musa m’ha
lasciato
Questo pungolo nella
fantasia.
Sono lieto che si chiami
follia
Dei nostri spiriti la
divinità,
Ma non è senza qualche
utilità
Che dolcemente l’errore ci
lega.
Esso ci abbaglia gli occhi
del pensiero
Per non vedere a volte il
nostro pianto,
Con dolce fascino incanta
il dolore
Che giorno e notte l’anima
ci offende.
Come
di Bacco la sacerdotessa,
Che Ida va riempiendo con
le grida,
Non sente il tirso che la
sta colpendo,
Io non sento il dolore che
m’opprime.
Dirà
qualcuno, a che questi lamenti?
Come nascono i frutti dalla
pianta,
I frutti dal dolore
maturati
Sono sospiri e lacrime non
finte.
Di
qualche male ognuno si lamenta,
Ma di piangere i modi son
diversi:
Ho scelto, quanto a me,
quello dei versi
Per fare meno aspro il mio
tormento.
Per
questo d’una satira gentile
Mescolando le spine con i
fiori,
Per non tediare con i miei
dolori,
Qui soprattutto a ridere
m’appresto.
Se
questi versi meritano lode,
O biasimo, a voi solo fra
tutti
M’appello qui: perché è solo
a voi,
A voi solo, Signore, che li
dono:
Come
a colui che con la sua saggezza
Ha riunito diritto ed equità,
E che porta da lunga
antichità
Unita alla virtù la
nobiltà:
Non disdegnando, come si
soleva,
L’abito lungo,
che voi onorate,
Come il saggio voi non
ignorate
Quanto la penna ed il
consiglio serva.
E perciò quel valente e
saggio Principe,
Dandovi dignità d’Ambasciatore,
Vi ha caricato della sua
grandezza,
Per trasportarla in provincia
straniera:
Con l’onore del posto
compensando
I vostri uffici, e bene dimostrando
Col premio al vostro
passato lavoro,
Quanto il vostro servizio
gli è gradito.
Altrettanto vi sia gradito
il libro,
Che di buon cuore io vi
offro qui:
Dei maldicenti non mi
curerò,
Sarò certo di vivere per
sempre.