venerdì 17 maggio 2013

Attualità di Du Bellay

Sembra scritta oggi, purtroppo. La Roma di un tempo dov'è andata? 
Ecco cosa diceva Du Bellay nel Cinquecento: sempre mia la traduzione.



LXXXIII

Robertet, non pensare che questa Roma qua
Sia quella Roma là che tanto ti piaceva.
Credito non si fa, come allora s’usava,
Non si fa più l’amore, come s’usava già.

La pace ed il buon tempo qui non regnano più,
La musica ed il ballo vi devono tacere,
L’aria vi è corrotta, Marte vi è consueto,
Consueta la fame, la pena e l’ansietà.

L’artigiano vizioso qui chiude la bottega,
Qui l’ozioso avvocato lascia il suo incartamento
E il povero mercante vi porta la bisaccia:

Non vedi che soldati, ed elmi sulla testa,
Non odi che tamburi e simile tempesta,
E Roma tutto il giorno attende un altro sacco.


domenica 12 maggio 2013

La satira secondo Du Bellay

Ecco un altro sonetto di Du Bellay: qui definisce il suo concetto di satira. Il "Calabrese" è Orazio. La traduzione, come sempre, è la mia (Paola Magi).


Quel fine Calabrese solletica ogni vizio,
Qualunque sia, all’amico, e nessuno risparmia,
Fa ridere perfino gli stessi che punzecchia,
Scherzando intorno al cuore di chi ha preso a bersaglio.

Se qualche perspicace si accorge nei miei versi
Che io mordo ridendo, nessuno tuttavia
Mi chiami falso amico verso quelli che pungo:
Ché chi mi stima tale, fortemente s’inganna.

La satira, Dilliers, è un pubblico esempio,
Dove, come uno specchio, l’uomo savio contempla
Tutto quello che è in lui di bello o di malfatto.

Non mi leggete dunque, o chi mi vorrà leggere
Non s’arrabbi se vede, messo in modo da ridere,
Qualche cosa di sé dipinto nel ritratto.