martedì 21 gennaio 2014

I rimpianti di Joachim Du Bellay



La mia traduzione integrale dei 191 sonetti di Du Bellay I rimpianti è stata pubblicata dalle Edizioni Archivio Dedalus, con testo francese a fronte. La prefazione è di Fabio Scotto, le note sono state scritte da me e da Giusi La Grotteria. Fabio Scotto scrive, fra l'altro, a proposito della mia traduzione, che "Paola Magi ci offre una meritoria traduzione integrale di notevole impegno () un lavoro di apprezzabile coerenza e rigore che restituisce nella riscrittura le modalità stilistiche ed espressive dell’originale senza cancellarne del tutto la patina del tempo".



Trascrivo qui il testo di quarta di copertina: 



Joachim Du Bellay (Liré 1522? – Parigi 1560) fu uno dei fondatori della Pléiade insieme a Pierre De Ronsard. Ne La Deffence et l’Illustration de la langue francoyse volle dare una base teorica alle aspirazioni dei poeti della Pléiade. Questa è la sua più celebre raccolta di sonetti, scritti durante e dopo il viaggio a Roma, al servizio dello zio Cardinale Jean Du Bellay. Joachim abbandona il petrarchismo della sua precedente raccolta, l’Olive, per cercare una poesia meno levigata ma più autenticamente sentita, che unisce la satira con l’elegia. Come scrive Henri Chamard, “era la totale rinuncia ai sogni di un tempo, il voluto oblio delle prescrizioni della Deffence, l’abbandono della poesia colta: ma era anche la scoperta originale della poesia personale e sincera”.

Du Bellay è considerato il più importante poeta francese del Cinquecento dopo Ronsard. Questa è la prima traduzione italiana integrale dei Regrets.

Ecco la dedica che apre la raccolta:

Al Signore D’Avanson, Consigliere del Re nel suo Consiglio privato


Se non ho più il favore della Musa,
E se i miei versi paiono imperfetti,
Il luogo, il tempo, l’età in cui li ho fatti,
E i miei dolori saranno di scusa.

Ero a Roma nel mezzo della guerra,
Uscivo già dall’età più propizia,
Ai miei affanni cercando riposo,
Non per lode o favore ricercare.

Così si vede quello che alla piana
Pungola il bue o lavora al bastione,
Rallegrarsi, e con verso senz’arte
Darsi coraggio a reggere la pena.

O quell’altro, che sopra la galera
I flutti fa schiumare tutto intorno,
I tristi canti accorda con il remo,
Per sentire la voga più leggera.



Pare che Achille, masticando l’ira,
Di gioie simili si dilettasse,
Per addolcire le memorie tristi
Dell’amante, al vibrare della lira.

Così leniva della sua il rimpianto
Perduta, aimè, per la seconda volta,
Quello che un tempo alle rocce e alle selve
Dell’arpa Tracia fece udire il canto.

Così mi fa la Musa a questa piaggia,
Dove languisco da casa bandito,
Più lieve il morso del triste momento,
Sola compagna al mio lungo viaggio.

Fra gli allarmi la Musa solamente
Sta salda e non si sbianca di paura:
Fra gli affanni la Musa solamente
Smorza la pena, asciuga i nostri pianti.

Da lei ricevo il riposo e la vita,
Lei m’insegna a non essere ambizioso,
Da lei ho i doni santi degli Dei,
Lo sprezzo della sorte e dell’invidia.

E lei sa pure, avendo dall’infanzia
Del mio piacere sempre retto il corso,
Che non la cupidigia ma il dovere,
Mi trattiene lontano dalla Francia.

Vorrei (ché per seguire la mia Musa
La schiena caricai di povertà)
 Non essermi attardato in quel cammino
Che porta alla sorgente di Medusa.

Ma come fuggirei quelle sorelle?
Me ne ha sedotto il canto ammaliatore,
E le attrattive in cui m’hanno tenuto
Con dolce nodo mi strinsero l’ali.

Non altrimenti da una dolce forza
I compagni d’Ulisse erano avvinti,
Immemori dei travagli obliati
E amanti il frutto ch’era loro esca.

Colui che d’una amorosa bevanda
Gustò il veleno insano dolce-amaro,
Sa il male suo e, costretto ad amarlo,                                     
Segue il legame che lo tiene schiavo.

Per questo amo la dolce poesia
E il dolce colpo da cui fui ferito:
Dalla culla la Musa m’ha lasciato
Questo pungolo nella fantasia.

Sono lieto che si chiami follia
Dei nostri spiriti la divinità,
Ma non è senza qualche utilità
Che dolcemente l’errore ci lega.


Esso ci abbaglia gli occhi del pensiero
Per non vedere a volte il nostro pianto,
Con dolce fascino incanta il dolore
Che giorno e notte l’anima ci offende.
Come di Bacco la sacerdotessa,
Che Ida va riempiendo con le grida,
Non sente il tirso che la sta colpendo,
Io non sento il dolore che m’opprime.
Dirà qualcuno, a che questi lamenti?
Come nascono i frutti dalla pianta,
I frutti dal dolore maturati
Sono sospiri e lacrime non finte.
Di qualche male ognuno si lamenta,
Ma di piangere i modi son diversi:
Ho scelto, quanto a me, quello dei versi
Per fare meno aspro il mio tormento.
Per questo d’una satira gentile
Mescolando le spine con i fiori,
Per non tediare con i miei dolori,
Qui soprattutto a ridere m’appresto.
Se questi versi meritano lode,
O biasimo, a voi solo fra tutti
M’appello qui: perché è solo a voi,
A voi solo, Signore, che li dono:
Come a colui che con la sua saggezza
Ha riunito diritto ed equità,
E che porta da lunga antichità
Unita alla virtù la nobiltà:

Non disdegnando, come si soleva,
L’abito lungo, che voi onorate,
Come il saggio voi non ignorate
Quanto la penna ed il consiglio serva.

E perciò quel valente e saggio Principe,
Dandovi dignità d’Ambasciatore,
Vi ha caricato della sua grandezza,
Per trasportarla in provincia straniera:

Con l’onore del posto compensando
I vostri uffici, e bene dimostrando
Col premio al vostro passato lavoro,
Quanto il vostro servizio gli è gradito.

Altrettanto vi sia gradito il libro,
Che di buon cuore io vi offro qui:
Dei maldicenti non mi curerò,
Sarò certo di vivere per sempre.



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