sabato 30 luglio 2011

Le Vecchine di Baudelaire


Come anticipavo a Vitamina sulla spiaggia grossetana ieri pomeriggio, ecco qua una poesia di Baudelaire, dai Quadri Parigini, dedicata alle vecchiette. A furia di parlare di menopausa, sintomi di invecchiamento, decrepitezza incipiente, ecco cosa ci tocca! Ecco cosa destava in cuore a Charles la vista delle ottuagenarie arrancanti sui marciapiedi parigini. Sempre nella mia traduzione (che probabilmente subirà qualche ritocco, credo). Buon agosto a tutti.


Le Vecchine
a Victor Hugo
I
Dentro le pieghe delle antiche capitali,
dove tutto, anche Orrore, volge all’incantamento,
faccio la posta, preso dai miei fatali umori,
a strane creature, decrepite e gentili.
Questi mostri sfasciati furono un tempo donne,
Eponina o Laide! mostri spezzati, gobbi,
o contorti, amiamoli! sono anime ancora.
Sotto gonne bucate e sotto fredde stoffe
camminano, percosse da tramontane inique,
fremendo nel frastuono rotolante degli omnibus,
e stringendosi al fianco, come delle reliquie,
borsette ricamate di fiori o di rebus;
trotterellano, simili a delle marionette;
si trascinano, come gli animali feriti,
senza volere, danzano, poveri campanelli
cui si appende un Demone senza pietà! Spezzate
come sono, hanno occhi acuti come trapani,
lucenti come i buchi in cui a notte l’acqua dorme;
hanno gli occhi divini della bambina piccola
che si stupisce e ride a tutto ciò che brilla.
Avete mai notato che i feretri di vecchie
sono piccoli quasi come quelli dei bimbi?
In quelle bare simili, la Morte saggia mette
un simbolo di un gusto bizzarro e accattivante,
e quando intravedo un debole fantasma
che va nel brulicante scenario di Parigi,
mi pare sempre che quella creatura fragile
s’incammini pian piano verso una nuova culla;
a meno che, pensando alla geometria,
non calcoli, all’aspetto delle membra discordi,
quante volte occorra che l’operaio varii
la forma della cassa che conterrà quei corpi.
Quegli occhi, pozzi fatti di milioni di lacrime,
crogiuoli che ricama un metallo raffreddato...
Quegli occhi misteriosi hanno un potente fascino
su colui che l’austero Infortunio ha allattato!
II
Del Frascati defunto Vestale innamorata;
Consacrata a Talìa, di cui un suggeritore
sotterrato sa il nome; celebre svaporata
che Tivoli ha ombreggiato un tempo nel suo fiore,
m’inebrio a tutte; ma, fra quegli esseri fragili,
taluni, trasformando il dolore in un miele,
dissero a Devozione, che prestò loro l’ala:
Ippogrifo potente, portami fino in cielo!
Una, che la sua patria esercitò al dolore,
un’altra, che il suo sposo caricò di sventure,
un’altra, da suo figlio Madonna pugnalata,
tutte avrebbero fatto coi loro pianti un fiume!
III
Ah, quante ne ho seguite, di queste vecchiettine!
Una, fra le altre, all’ora che il sole del tramonto
insanguina l’azzurro di ferite vermiglie,
pensosa, si sedeva in disparte, sopra un banco,
per sentire un concerto, di quelli con gli ottoni
di cui spesso i soldati inondano i giardini,
che, certe sere d’oro che ti senti rivivere,
versano l’eroismo in cuore ai cittadini.
Quella, diritta e fiera, da amante della regola,
beveva avidamente quel canto alto e guerriero;
l’occhio si apriva a volte come quello di un’aquila;
la sua fronte di marmo era fatta per l’alloro!
IV
Così voi camminate, stoiche, senza lamenti,
attraversando il caos delle città viventi,
sante, puttane, madri dal cuore insanguinato,
il cui nome da tutti un tempo era citato.
Voi, che foste la grazia e che foste la gloria,
nessuno vi conosce! Un beone incivile
passando vi sbeffeggia d’amore derisorio;
passo passo vi segue un ragazzo sciocco e vile.
Vergognose d’esistere, voi, ombre rattrappite,
paurose, a schiena bassa, costeggiate le mura;
nessuno vi saluta, quale strano destino!
Resti umani, maturi già per l’eternità!
Ma io, che, di lontano, tenero vi sorveglio,
l’occhio inquieto, fissato sui vostri passi incerti,
come se fossi vostro padre, oh, meraviglia!
gusto, a vostra insaputa, piaceri clandestini:
vedo fiorire i vostri amori di novizie;
vivo, oscuri o splendidi, i vostri giorni andati;
godo, col cuore moltiplicato, i vostri vizi!
L’anima mia risplende delle vostre virtù!
Rovine! mia famiglia! o cervelli congeneri!
Ogni sera vi faccio un solenne saluto!
Dove sarai domani, Eva ottuagenaria
su cui pesa l’artiglio spaventoso di Dio?

domenica 24 luglio 2011

Il viaggio secondo Baudelaire

La morte per Gauguin, come ne ha parlato bene Grazia nel suo blog Senza Dedica. Leggetelo. Ed ecco invece la morte e il viaggio per Baudelaire. Ciao Grazia.
Semre nella mia traduzione.

Il viaggio

A Maxime du Camp

I

Per il ragazzo, amante di carte e illustrazioni,

l’universo è uguale al suo vasto appetito.

Ah! com’è grande il mondo al lume delle lampade!

Agli occhi del ricordo, come il mondo è piccino!


Un mattino salpiamo, con il cervello in fiamme,

il cuore gonfio di rancori e amare voglie,

e partiamo cullando, al ritmo delle onde,

il nostro infinito sul finito dei mari.


Gli uni, lieti di andare via da una patria infame;

altri, via dall’orrore della famiglia, e altri

astrologi annegati negli occhi di una donna,

dalla Circe tirannica dai profumi insidiosi.


S’inebriano, per non farsi mutare in bestie,

dello spazio, e di luce, e dei cieli infuocati,

il gelo che li morde, il sole che li tinge

poco a poco cancellano ogni traccia di baci.


Ma i veri viaggiatori sono quelli che partono

per partire, coi cuori lievi come palloni,

mai si scostano dalla loro fatalità.

e sempre, non sapendo perché, dicono: Andiamo!


Quelli, i cui desideri hanno forma di nubi,

e che sognano, come la recluta il cannone,

di vaste voluttà, cangianti e sconosciute,

di cui l’animo umano mai ha saputo il nome!

II

Noi imitiamo, orrore! la trottola e la palla

nei loro balzi e valzer; anche nei nostri sonni

la Curiosità ci rotola e tormenta

come un crudele Angelo che fustiga dei soli.


Singolare fortuna la cui meta si sposta,

non è in nessun luogo e perciò forse ovunque!

Dove l’uomo, la cui speranza mai si stanca,

per trovare la pace corre come un ossesso!


Il cuore è un tre alberi che cerca la sua Icaria;

una voce risuona sul ponte: “aguzza l’occhio!”

Un’altra dalla gabbia, ardente e folle, grida:

“gloria... amore... gioia!” Inferno! era uno scoglio!


Ogni isola, indicata dall’uomo di vedetta,

è l’Eldorado che ci promise il destino;

e l’Immaginazione, che già pregusta l’orgia,

non trova che una roccia al sole del mattino.


O poveretto, amante dei paesi chimerici!

Andrebbe messo ai ferri, o gettato nel mare,

quel marinaio ubriaco, inventore d’Americhe,

il cui miraggio rende l’abisso più amaro!


Così il vecchio barbone, che cammina nel fango,

sogna, col naso in aria, brillanti paradisi;

scopre, con il suo occhio incantato, una Capua

dovunque una candela rischiari una stamberga.

III

Viaggiatori incredibili! quante nobili storie

vi leggiamo negli occhi profondi come i mari!

mostrateci i forzieri delle ricche memorie.

Quei gioielli magnifici, fatti d’etere e d’astri.


Noi vogliamo viaggiare senza vapore o vela!

Per rallegrare il tedio delle nostre prigioni

passateci sull’anima, tela distesa, i vostri

ricordi con le loro cornici d’orizzonte.


Dite, che avete visto?

IV

“Abbiamo visto gli astri,

abbiamo visto flutti, abbiamo visto sabbie;

e, malgrado i colpi e gl’inattesi disastri,

molte volte ci siamo annoiati, come qui.


Il trionfo del sole sopra il mare violetto,

la gloria di città nel sole del tramonto,

davano ai nostri cuori un ardore irrequieto

di immergerci in un cielo dai riflessi allettanti.


Le più ricche città, i più grandi paesaggi,

mai avevano le misteriose attrattive

di quelli che il caso fabbrica con le nubi.

E sempre il desiderio ci rendeva ansiosi!


Il godimento aggiunge vigore al desiderio,

desiderio, vecchio albero nutrito dal piacere,

e per quanto indurisca la tua scorza, i rami

vorrebbero vedere il sole più vicino.


Crescerai sempre, grande albero più vivace

del cipresso? – eppure raccogliemmo, con cura,

schizzi per i voraci vostri album, o fratelli

cui tutto pare bello se viene di lontano!


Abbiamo salutato degli idoli da tromba;

dei troni costellati di gioielli splendenti;

dei palazzi istoriati il cui fasto favoloso

per i vostri banchieri sarebbe rovinoso;


delle vesti che sono ebbrezza per lo sguardo;

delle donne i cui denti e le unghie sono tinti;

e giocolieri saggi che carezza il serpente:

V

E poi, e poi, ancora?

VI

O cervelli infantili!

Per non dimenticare la cosa capitale

abbiamo visto ovunque, senza averlo cercato,

dalla cima giù al fondo della scala fatale

lo spettacolo uggioso del peccato immortale:


la donna, schiava vile, inorgoglita e stupida,

senza riso adorarsi, amarsi senza nausea;

l’uomo, tiranno ghiotto, duro, lascivo e avido,

schiavo della sua schiava, rivolo nella fogna;


il boia che gioisce, il martire che piange;

la festa che profuma e aromatizza il sangue;

il potere, veleno che snerva ogni tiranno,

e il popolo che ama la frusta che abbrutisce;


le molte religioni somiglianti alla nostra,

tutte a scalare il cielo; Santità compiaciuta

nel cercare piacere nei chiodi e nelle corde,

come un raffinato in un letto di piume.


L’Umanità ciarliera, ebbra del proprio genio,

e folle adesso come lo era stata un tempo,

gridare a Dio, nel suo furioso agonizzare:

“Mio simile e padrone, io ti maledico!”


E i meno sciocchi, audaci cultori di Demenza

fuggire il grande gregge piazzato dal destino,

e andare a rifugiarsi dentro l’oppio immenso!

Questo è del globo intero l’eterno bollettino.

VII

Sapere amaro, quello che viene dal viaggio!

Il mondo, che è piccino e monotono oggi,

ieri, domani, sempre, ci mostra il nostro volto:

un’oasi di orrore in un deserto di noia!


Si deve andare? stare? se puoi restare, resta;

Parti, se devi. L’uno corre, l’altro si acquatta

per ingannare il viglie e funesto nemico,

il Tempo! C’è chi, ahimé, corre senza riposo,


come l’Ebreo errante e come gli apostoli,

a cui nulla mai basta, né barca né vagone,

per fuggire il reziario infame; ce n’è altri

che lo uccidono senza lasciare il loro tetto.


Quando ci metterà il piede sulla schiena

noi potremo sperare e gridare: avanti, avanti!

Così come altre volte partimmo per la Cina,

con gli occhi fissi al largo ed i capelli al vento,


ci imbarcheremo sopra il mare delle Tenebre,

col cuore allegro d’un giovane passeggero.

Sentite queste voci funebri e affascinanti

che cantano: “Di qua, se volete mangiare


il Loto profumato! è qui che si vendemmia

il frutto prodigioso di cui avete fame;

venite a inebriarvi della dolcezza strana

di questo pomeriggio che non finisce mai!”


La voce familiare ci palesa lo spettro;

laggiù i nostri Piladi ci tendono le braccia;

“Per rinfrescare il cuore naviga alla tua Elettra!”

dice colei che un tempo baciavamo ai ginocchi.

VIII

O Morte, o Capitano, leva l’ancora! è ora!

Questo luogo ci annoia, o Morte! su, partiamo!

Se il cielo e il mare sono neri come l’inchiostro

i nostri cuori, che tu sai, sono radiosi!


Versaci il tuo veleno perché ci riconforti!

Vogliamo, tanto quel fuoco ci brucia i cuori,

tuffarci nell’abisso, Cielo o Inferno che importa?

Giù, nello Sconosciuto, per trovare del Nuovo!


venerdì 15 luglio 2011

Faselus, ovvero la barchetta di Catullo


In attesa di raggiungere le spiagge, sudo e sudo e sudo. In questo lago mi viene in mente per opposizione un altro lago, fresco e bello, cantato da Catullo in uno dei suoi piccoli capolavori.
Un lago, una barchetta ormai in pensione: che vi devo dire, un poco mi ci identifico:-)

La barchetta

di Catullo
(traduzione di Paola Magi)

Amici, la barchetta che vedete

fu, dice, velocissimo naviglio,

e non poté non superare l’impeto

d’altro legno natante, sia che avesse

da volare coi remi, o con la vela.

Non possono negarlo il minaccioso

litorale adriatico, le Cicladi,

Rodi l’altera e la selvaggia Tracia,

la Propontide truce o il golfo pontico,

ove questa, poi barca, prima è stata

selva chiomata; nel giogo citonio

spesso la chioma arguta sibilava.

Pontica Amastri e Citore selvoso,

d’esserti stato e d’esserti stranoto

dice, la barca, che fin dall’origine

sua prima ti era stata sul cocuzzolo,

che immerse i remicelli nel tuo mare,

che condusse tra flutti tempestosi

il suo padrone, da qualunque lato,

sinistra o destra, il vento richiamasse,

o che Giove spingesse ambo le vele;

e che mai, quando giunse a questo lago

limpido dall’oceano sconosciuto,

fece voti agli dèi del litorale.

Ma tutto questo, è stato: adesso invecchia

nascosta, e quieta a voi qui si consacra,

gemello Castore e gemello a Castore.



mercoledì 13 luglio 2011

Moesta et Errabunda




Prima di partire per il mare, un saluto e un altro piccolo capolavoro di Baudelaire nella mia modesta versione.


Moesta et errabunda
di Charles Baudelaire
(traduzione di Paola Magi)

Dimmi, Agata, talvolta se ne vola il tuo cuore
via dall’oceano nero dell’immonda città
verso un oceano nuovo in cui splende la luce,
chiara, azzurra, profonda come Verginità?
Dimmi, Agata, talvolta se ne vola il tuo cuore?

Il mare, il vasto mare consola i nostri affanni!
che demone ha dotato il mare, roca voce
che segue il grande organo dei venti tumultuosi,
di codesta funzione sublime di nutrice?
Il mare, il vasto mare consola i nostri affanni!

trasportami, vagone! portami via, fregata!
Via, lontano! qui il fango si fa coi nostri pianti!
È vero che talvolta il triste cuore d’Agata
dice: via dai dolori, dai mali, dai rimpianti
trasportami, vagone! portami via, fregata!

Come siete lontani, paradisi odorosi,
dove, sotto l’azzurro, tutto è gioia ed amore,
e tutto ciò che si ama vale d’essere amato,
dove nel godimento puro s’annega il cuore!
Come siete lontani, paradisi odorosi!

Ma il verde paradiso degli amori infantili,
le corse, le canzoni, i baci ed i mazzetti ,
i violini vibranti da dietro le colline,
con le brocche di vino, a sera, nei boschetti,
ma il verde paradiso degli amori infantili,

quel paradiso ingenuo, dai piaceri furtivi,
è più lontano già che l’India e che la Cina?
Lo si può ricordare con grida lamentose,
e rianimarlo ancora di una voce argentina,
quel paradiso ingenuo, dai piaceri furtivi?


domenica 10 luglio 2011


Baudelaire, ancora



Tanto per gradire, in una Milano torrida che sta preparando un temporale, ecco un'altra delle mie versioni in italiano dei Fiori del Male di Charles Baudelaire.


Al lettore

(di Charles Baudelaire, traduzione di Paola Magi)


L’avarizia, l’errore, la stoltezza, i peccati,

ci invadono gli spiriti e ci straziano i corpi;

alimentiamo i nostri amabili rimorsi

come i poveri nutrono i loro parassiti.


Ostinate le colpe, fragili i pentimenti;

ci facciamo pagare cara la confessione;

nel sentiero fangoso entriamo lieti, come

bastasse un pianto vile per lavarci dai torti.


Sul cuscino del male Satana Trismegisto

gli spiriti incantati ci culla con dolcezza

e il metallo prezioso della nostra fermezza

è mutato in vapore da quel grande alchimista.


Satana regge i fili coi quali ci muoviamo!

Noi troviamo bellezze in cose ripugnanti;

senza orrore, attraverso tenebre maleolenti

all’Inferno ogni giorno d’un passo discendiamo.


Come un vizioso povero che si strofina e mangia

al seno martoriato d’una antica puttana,

noi passando rubiamo voluttà clandestine

che spremiamo con forza come una vecchia arancia.


Serrato, brulicante come un’orda di vermi

un popolo di Demoni ci mangia nei cervelli

e, quando respiriamo, la Morte negli alveoli

ci scende, fiume occulto, con dei sordi lamenti.


Se lo stupro, l’incendio, il veleno, il pugnale,

coi loro bei disegni non hanno ricamato

il canovaccio anonimo del nostro vile fato

è che la nostra anima non è abbastanza audace.


Pure, fra le pantere, le cagne e gli scorpioni,

le serpi e gli avvoltoi, le scimmie, gli sciacalli,

fra i mostri che grugniscono con stridori e con urli,

nel serraglio di tutti i nostri vizi infami


ve n’è uno più orrendo, più crudele, più immondo!

Benché non lanci né grandi gesti né grida,

della terra farebbe volentieri rovina

e con uno sbadiglio ingoierebbe il mondo;


E’ la Noia! Occhi gonfi di pianti involontari,

sogna la forca, mentre fuma il suo narghilé,

Tu conosci, lettore, quel mostro delicato,

ipocrita lettore – mio fratello – mio pari!