sabato 30 luglio 2011
domenica 24 luglio 2011
Il viaggio
A Maxime du Camp
I
Per il ragazzo, amante di carte e illustrazioni,
l’universo è uguale al suo vasto appetito.
Ah! com’è grande il mondo al lume delle lampade!
Agli occhi del ricordo, come il mondo è piccino!
Un mattino salpiamo, con il cervello in fiamme,
il cuore gonfio di rancori e amare voglie,
e partiamo cullando, al ritmo delle onde,
il nostro infinito sul finito dei mari.
Gli uni, lieti di andare via da una patria infame;
altri, via dall’orrore della famiglia, e altri
astrologi annegati negli occhi di una donna,
dalla Circe tirannica dai profumi insidiosi.
S’inebriano, per non farsi mutare in bestie,
dello spazio, e di luce, e dei cieli infuocati,
il gelo che li morde, il sole che li tinge
poco a poco cancellano ogni traccia di baci.
Ma i veri viaggiatori sono quelli che partono
per partire, coi cuori lievi come palloni,
mai si scostano dalla loro fatalità.
e sempre, non sapendo perché, dicono: Andiamo!
Quelli, i cui desideri hanno forma di nubi,
e che sognano, come la recluta il cannone,
di vaste voluttà, cangianti e sconosciute,
di cui l’animo umano mai ha saputo il nome!
II
Noi imitiamo, orrore! la trottola e la palla
nei loro balzi e valzer; anche nei nostri sonni
la Curiosità ci rotola e tormenta
come un crudele Angelo che fustiga dei soli.
Singolare fortuna la cui meta si sposta,
non è in nessun luogo e perciò forse ovunque!
Dove l’uomo, la cui speranza mai si stanca,
per trovare la pace corre come un ossesso!
Il cuore è un tre alberi che cerca la sua Icaria;
una voce risuona sul ponte: “aguzza l’occhio!”
Un’altra dalla gabbia, ardente e folle, grida:
“gloria... amore... gioia!” Inferno! era uno scoglio!
Ogni isola, indicata dall’uomo di vedetta,
è l’Eldorado che ci promise il destino;
e l’Immaginazione, che già pregusta l’orgia,
non trova che una roccia al sole del mattino.
O poveretto, amante dei paesi chimerici!
Andrebbe messo ai ferri, o gettato nel mare,
quel marinaio ubriaco, inventore d’Americhe,
il cui miraggio rende l’abisso più amaro!
Così il vecchio barbone, che cammina nel fango,
sogna, col naso in aria, brillanti paradisi;
scopre, con il suo occhio incantato, una Capua
dovunque una candela rischiari una stamberga.
III
Viaggiatori incredibili! quante nobili storie
vi leggiamo negli occhi profondi come i mari!
mostrateci i forzieri delle ricche memorie.
Quei gioielli magnifici, fatti d’etere e d’astri.
Noi vogliamo viaggiare senza vapore o vela!
Per rallegrare il tedio delle nostre prigioni
passateci sull’anima, tela distesa, i vostri
ricordi con le loro cornici d’orizzonte.
Dite, che avete visto?
IV
“Abbiamo visto gli astri,
abbiamo visto flutti, abbiamo visto sabbie;
e, malgrado i colpi e gl’inattesi disastri,
molte volte ci siamo annoiati, come qui.
Il trionfo del sole sopra il mare violetto,
la gloria di città nel sole del tramonto,
davano ai nostri cuori un ardore irrequieto
di immergerci in un cielo dai riflessi allettanti.
Le più ricche città, i più grandi paesaggi,
mai avevano le misteriose attrattive
di quelli che il caso fabbrica con le nubi.
E sempre il desiderio ci rendeva ansiosi!
Il godimento aggiunge vigore al desiderio,
desiderio, vecchio albero nutrito dal piacere,
e per quanto indurisca la tua scorza, i rami
vorrebbero vedere il sole più vicino.
Crescerai sempre, grande albero più vivace
del cipresso? – eppure raccogliemmo, con cura,
schizzi per i voraci vostri album, o fratelli
cui tutto pare bello se viene di lontano!
Abbiamo salutato degli idoli da tromba;
dei troni costellati di gioielli splendenti;
dei palazzi istoriati il cui fasto favoloso
per i vostri banchieri sarebbe rovinoso;
delle vesti che sono ebbrezza per lo sguardo;
delle donne i cui denti e le unghie sono tinti;
e giocolieri saggi che carezza il serpente:
V
E poi, e poi, ancora?
VI
O cervelli infantili!
Per non dimenticare la cosa capitale
abbiamo visto ovunque, senza averlo cercato,
dalla cima giù al fondo della scala fatale
lo spettacolo uggioso del peccato immortale:
la donna, schiava vile, inorgoglita e stupida,
senza riso adorarsi, amarsi senza nausea;
l’uomo, tiranno ghiotto, duro, lascivo e avido,
schiavo della sua schiava, rivolo nella fogna;
il boia che gioisce, il martire che piange;
la festa che profuma e aromatizza il sangue;
il potere, veleno che snerva ogni tiranno,
e il popolo che ama la frusta che abbrutisce;
le molte religioni somiglianti alla nostra,
tutte a scalare il cielo; Santità compiaciuta
nel cercare piacere nei chiodi e nelle corde,
come un raffinato in un letto di piume.
L’Umanità ciarliera, ebbra del proprio genio,
e folle adesso come lo era stata un tempo,
gridare a Dio, nel suo furioso agonizzare:
“Mio simile e padrone, io ti maledico!”
E i meno sciocchi, audaci cultori di Demenza
fuggire il grande gregge piazzato dal destino,
e andare a rifugiarsi dentro l’oppio immenso!
Questo è del globo intero l’eterno bollettino.
VII
Sapere amaro, quello che viene dal viaggio!
Il mondo, che è piccino e monotono oggi,
ieri, domani, sempre, ci mostra il nostro volto:
un’oasi di orrore in un deserto di noia!
Si deve andare? stare? se puoi restare, resta;
Parti, se devi. L’uno corre, l’altro si acquatta
per ingannare il viglie e funesto nemico,
il Tempo! C’è chi, ahimé, corre senza riposo,
come l’Ebreo errante e come gli apostoli,
a cui nulla mai basta, né barca né vagone,
per fuggire il reziario infame; ce n’è altri
che lo uccidono senza lasciare il loro tetto.
Quando ci metterà il piede sulla schiena
noi potremo sperare e gridare: avanti, avanti!
Così come altre volte partimmo per la Cina,
con gli occhi fissi al largo ed i capelli al vento,
ci imbarcheremo sopra il mare delle Tenebre,
col cuore allegro d’un giovane passeggero.
Sentite queste voci funebri e affascinanti
che cantano: “Di qua, se volete mangiare
il Loto profumato! è qui che si vendemmia
il frutto prodigioso di cui avete fame;
venite a inebriarvi della dolcezza strana
di questo pomeriggio che non finisce mai!”
La voce familiare ci palesa lo spettro;
laggiù i nostri Piladi ci tendono le braccia;
“Per rinfrescare il cuore naviga alla tua Elettra!”
dice colei che un tempo baciavamo ai ginocchi.
VIII
O Morte, o Capitano, leva l’ancora! è ora!
Questo luogo ci annoia, o Morte! su, partiamo!
Se il cielo e il mare sono neri come l’inchiostro
i nostri cuori, che tu sai, sono radiosi!
Versaci il tuo veleno perché ci riconforti!
Vogliamo, tanto quel fuoco ci brucia i cuori,
tuffarci nell’abisso, Cielo o Inferno che importa?
Giù, nello Sconosciuto, per trovare del Nuovo!
venerdì 15 luglio 2011
Amici, la barchetta che vedete
fu, dice, velocissimo naviglio,
e non poté non superare l’impeto
d’altro legno natante, sia che avesse
da volare coi remi, o con la vela.
Non possono negarlo il minaccioso
litorale adriatico, le Cicladi,
Rodi l’altera e la selvaggia Tracia,
la Propontide truce o il golfo pontico,
ove questa, poi barca, prima è stata
selva chiomata; nel giogo citonio
spesso la chioma arguta sibilava.
Pontica Amastri e Citore selvoso,
d’esserti stato e d’esserti stranoto
dice, la barca, che fin dall’origine
sua prima ti era stata sul cocuzzolo,
che immerse i remicelli nel tuo mare,
che condusse tra flutti tempestosi
il suo padrone, da qualunque lato,
sinistra o destra, il vento richiamasse,
o che Giove spingesse ambo le vele;
e che mai, quando giunse a questo lago
limpido dall’oceano sconosciuto,
fece voti agli dèi del litorale.
Ma tutto questo, è stato: adesso invecchia
nascosta, e quieta a voi qui si consacra,
gemello Castore e gemello a Castore.
mercoledì 13 luglio 2011
Moesta et Errabunda
domenica 10 luglio 2011
Baudelaire, ancora
Tanto per gradire, in una Milano torrida che sta preparando un temporale, ecco un'altra delle mie versioni in italiano dei Fiori del Male di Charles Baudelaire.
Al lettore
(di Charles Baudelaire, traduzione di Paola Magi)
L’avarizia, l’errore, la stoltezza, i peccati,
ci invadono gli spiriti e ci straziano i corpi;
alimentiamo i nostri amabili rimorsi
come i poveri nutrono i loro parassiti.
Ostinate le colpe, fragili i pentimenti;
ci facciamo pagare cara la confessione;
nel sentiero fangoso entriamo lieti, come
bastasse un pianto vile per lavarci dai torti.
Sul cuscino del male Satana Trismegisto
gli spiriti incantati ci culla con dolcezza
e il metallo prezioso della nostra fermezza
è mutato in vapore da quel grande alchimista.
Satana regge i fili coi quali ci muoviamo!
Noi troviamo bellezze in cose ripugnanti;
senza orrore, attraverso tenebre maleolenti
all’Inferno ogni giorno d’un passo discendiamo.
Come un vizioso povero che si strofina e mangia
al seno martoriato d’una antica puttana,
noi passando rubiamo voluttà clandestine
che spremiamo con forza come una vecchia arancia.
Serrato, brulicante come un’orda di vermi
un popolo di Demoni ci mangia nei cervelli
e, quando respiriamo, la Morte negli alveoli
ci scende, fiume occulto, con dei sordi lamenti.
Se lo stupro, l’incendio, il veleno, il pugnale,
coi loro bei disegni non hanno ricamato
il canovaccio anonimo del nostro vile fato
è che la nostra anima non è abbastanza audace.
Pure, fra le pantere, le cagne e gli scorpioni,
le serpi e gli avvoltoi, le scimmie, gli sciacalli,
fra i mostri che grugniscono con stridori e con urli,
nel serraglio di tutti i nostri vizi infami
ve n’è uno più orrendo, più crudele, più immondo!
Benché non lanci né grandi gesti né grida,
della terra farebbe volentieri rovina
e con uno sbadiglio ingoierebbe il mondo;
E’ la Noia! Occhi gonfi di pianti involontari,
sogna la forca, mentre fuma il suo narghilé,
Tu conosci, lettore, quel mostro delicato,
ipocrita lettore – mio fratello – mio pari!