giovedì 26 maggio 2011




Destra, sinistra, Siena, Firenze, e un omaggio a Lorenzetti


Cosa rispondo, quando uno studente
mi chiede se io sono veramente
di destra o di sinistra? il mio commento
è un risolino di compatimento.
Per capire da dove mi deriva
quell'aria a mezzo fra triste e giuliva
vieni in volo nei tempi e negli spazi
per vedere due nobili palazzi.

L'Italia dei comuni già covava
quel male che oggi tanto la dilava:
ma, come ai tempi di Sparta e di Atene,
c'era anche allora chi faceva bene
amministrando la cosa di tutti
e chi invece rendeva amari frutti.

Due palazzi, dicevo: uno è quel Vecchio
che in Firenze al Comune fu apparecchio;
l'altro, di Siena, Pubblico è chiamato,
che al governo dei Nove fu approntato.
Guardali bene, guarda soprattutto
delle aperture il diverso costrutto:
dimmi, a che serve una porta, lo sai?
Per entrare ed uscire, mi dirai.
Se delle porte ce ne sono tante,
cosa ti pare ne sia derivante?
E chi si trova dentro sta sicuro
anche se è dietro a un legno e non a un muro?

Guarda adesso a Firenze com'è fatto
quel fortilizio severo e compatto:
asserragliati dentro, i magistrati
stavano in tema d'essere ammazzati.
Quale palazzo ti pare che dica
che per tutti il governo è cosa amica?

Siena fu certo migliore modello
che non Firenze, matrice e ostello
di guerre e di contese e d'aspre lotte
che mutarono il giorno con la notte
per chi viveva in lei, e ai suoi mestieri
voleva attendere senza pensieri.

Il popolo senese incaricò
il Lorenzetti, che tutto affrescò
col Buon Governo il Salone dei Nove,
disponendo figure antiche e nuove
e fra le quali la Giustizia regna,
che dispensa tormenti a gente indegna;
da lei discende una bella figura
che ai cittadini onesti è buona cura.

Il suo nome è Concordia, e dà legami
che il popolo si passa fra le mani;
solo Concordia, da Giustizia retta,
può ottenere che Pace regni netta.
Questo dipinto dura da gran tempo,
del governo di Siena grato esempio.
Da Concordia e Giustizia, poi, discende
la Sicurezza che serena rende
la vita della sua cittadinanza
che lavora operosa, e lieta danza.

Alma Concordia, io t'invoco invano
di visitare il popolo italiano!
Chi lo dirige non ha conoscenza
di quel modello antico di sapienza,
e gli stessi italiani poco sanno
che mancare a Concordia è certo danno.

Guardate voi che dure conseguenze
per chi sceglie il modello di Firenze.
Padre Dante, riguardaci tu, ora:
ahi, che la vista d'Italia t'accora!
Parla, levando il sopracciglio fiero,
con tremendo discorso aspro pensiero.
La tua Firenze amara s'è allargata,
una grande nazione è diventata
fatta di clan che cercano il potere
indifferenti al pubblico dovere.

Dunque perché dovrei rendere fede
all'uno o all'altro, se null'altro chiede
che di potermi tenere al servizio
del suo potere, per tremendo vizio?
Basta coi clan di parte, basta orrenda
lizza di cani azzannati a vicenda.
basta con la finzione menzognera
che i buoni siano tutti in una schiera
e che dall'altra parte siano tutti
cattivi, delinquenti e farabutti.

Non è così, non può credere a questo
chi con ragione sta, non con pretesto;
la nostra bella casa, Italia mia,
per questo è ormai rubello di follia.
Dunque la mia bandiera è solo una
che tre colori in un panno raduna;
solo Concordia bramo sia sovrana
e renda Pace alla gente italiana.

martedì 24 maggio 2011

Lusso calma e voluttà




Matisse ha fatto un bel dipinto intitolato con questo verso di Baudelaire. Chissà se Grazia prima o poi avrà voglia di farvelo vedere nel suo bel blog, "Senza dedica", che invito tutti i miei undici lettori a visitare regolarmente, ci troverete chicche e delizie.
Intanto, per invitare la nostra cara Grazia a questo viaggio nel colore dei fauves, ecco l'Invito al viaggio di Charles Baudelaire nella mia versione.


Invito al viaggio
di Charles Baudelaire
traduzione di Paola Magi

Sogniamo, sorella,
bambina mia, il bello
di vivere insieme laggiù!
Amare a piacere,
amare e morire,
nel luogo cui somigli tu!

I soli bagnati
di cieli offuscati
per me possiedono il fascino
di quei due oscuri
tuoi occhi spergiuri
lucenti fra veli di lacrime.

Laggiù tutto quanto è beltà
lusso, calma e voluttà.

Dei lucidi scranni
politi dagli anni
sarebbero arredo alla stanza,
i più rari fiori
fondendo gli odori
ai vaghi sentori dell’ambra.

Sui ricchi plafoni
gli specchi profondi
ed uno splendore orientale
parlerebbe, tutto,
al cuore in segreto
la sua dolce lingua natale.

Laggiù tutto quanto è beltà
lusso, calma e voluttà.

Vedi nei canali
dormire i vascelli
di temperamento errabondo;
è per esaudire
i tuoi desideri
che giungono da in capo al mondo.

I soli cadenti
rivestono i campi
i canali e la città
di oro e giacinto;
s’addormenta il mondo
in calda luminosità.

Laggiù tutto quanto è beltà
lusso, calma e voluttà.

lunedì 23 maggio 2011

Il serpente che danza




Ecco qua un altro Fiore di Baudelaire. Non so se questa possa essere considerata la versione definitiva, ci ho sudato parecchio e adesso comincia ad avere un aspetto accettabile.


Il serpente che danza

di Charles Baudelaire
traduzione della solita Paola Magi

Quanto mi piace, cara indolente,
veder brillare
del tuo bel corpo la pelle, come
stoffa cangiante!

Sulla profonda capigliatura
d’acri profumi,
mare odoroso alla ventura
di onde blu e brune,

Come una nave che al mattutino
vento si desta,
per cieli ignoti il mio sognante
cuore apparecchia.

Gli occhi tuoi, dove nulla si svela
di dolce o amaro,
sono gioielli freddi, in cui l’oro
si unisce al ferro.

Se ti si guarda andare in cadenza,
bella d’oblio,
ti si direbbe un serpe che danza
in cima a un bastone;

sotto il fardello del tuo abbandono,
la testa infante
ondeggia con la mollezza d’un gio-
vane elefante,

ed il suo corpo si china e allunga
come una barca
fine, che bordeggi, e immerga
le bome in acqua.

E, come un’onda cresce ai disciolti
ghiacciai grondanti,
se l’acqua della tua bocca sale
al bordo dei denti,

mi par di bere vino boemo
vincente e amaro,
un cielo liquido che mi dissemina
di stelle il cuore!

domenica 22 maggio 2011

Un balcone per Grazia


Grazia mi chiede preoccupata dove sono sparita. Sono qua, sono qua, immersa in mille cose e, nei ritagli di tempo, divisa equamente fra le elezioni (passate e future) e le mie traduzioni dei Fiori di Baudelaire. Ne raccolgo uno e glielo offro, mi sembra adatto a questa primavera che ormai volge all'estate.

Il balcone

di Charles Baudelaire

(traduzione, come sempre, di Paola Magi)


O Madre dei ricordi, signora delle amanti,

Tu, tutto il mio piacere! Tu, tutto il mio dovere!

Ti tornerà alla mente la bellezza dei baci,

la dolcezza del fuoco, l’incanto delle sere,

O Madre dei ricordi, Signora delle amanti!


Le sere illuminate dal fuoco dei carboni,

e le sere al balcone, rosate di vapori.

Che dolce era il tuo seno! Che buono era il tuo cuore!

Ci parlavamo, spesso, di cose imperiture,

le sere illuminate dal fuoco dei carboni.


Che belli sono i soli nelle calde serate!

Che profondo lo spazio! e che potente il cuore!

Chinandomi su te, regina delle amate,

credevo di sentire del tuo sangue l’odore.

Che belli sono i soli nelle calde serate!


La notte s’ispessiva quasi come un recinto,

nel nero indovinavo con gli occhi le pupille,

bevevo, il tuo respiro, o dolcezza, o veleno!

Ti cullavo i piedini con mani di fratello.

La notte s’ispessiva quasi come un recinto.


So l’arte di evocare i momenti felici,

stretto nei tuoi ginocchi, rivivo il mio passato;

a che serve cercare le tue bellezze languide

se non nel cuore dolce e nel tuo corpo amato?

So l’arte di evocare i momenti felici.


Le promesse, i profumi e quei baci infiniti

rinasceranno mai da un abisso insondato

come, dopo un lavacro dentro i mari profondi,

risalgono nel cielo i soli rinnovati?

O promesse! O profumi! O quei baci infiniti!

lunedì 16 maggio 2011

L'Italia s'è desta



Buongiorno Italia. Buongiorno Milano, specialmente, dato che sei la città in cui vivo e in cui ho sentito in modo palpabile crescere l'indignazione, tracimare fino al risultato inatteso e incredibile di questa votazione.
Ora dobbiamo solo temere che i cestini-coi-soldini facciano il giro di quartieri e palazzi, ricomprando i voti perduti: c'è da aspettarsi di tutto, purtroppo. Speriamo che Milano mostri ancora una volta di che pasta sono fatti i Milanesi. Gente seria, che non si fa incantare dalle sirene, di destra o di sinistra che siano, ma guarda all'onestà e alla libertà come a un valore imprescindibile. Ti voglio bene, Milano. Ti ho scelta per vivere, mettere su famiglia, lavorare. Non mi hai mai deluso, nemmeno questa volta.

giovedì 5 maggio 2011

Ancora Lorca


Ecco un altro Lorca, una ballata quasi infantile, fiaba di popolo trasformata in lirica delicata e sognante. Bellissima. Sempre naturalmente nella mia traduzione.


Federico Garcia Lorca

Questa notte Santiago
(traduzione di Paola Magi)


Questa notte Santiago ha passato

la sua strada di luce nel cielo.

Lo raccontano i bimbi giocando

con un’acqua di fiume sereno.

Dove va il pellegrino celeste

lungo il chiaro infinito sentiero?

Va all’aurora che brilla nel fondo

su un cavallo più bianco del gelo.

O bambini, cantate nel prato

traforando col ridere il vento!

Dice un uomo che ha visto Santiago

in corteo con duecento guerrieri;

tutti quanti coperti di luce,

con ghirlande di verdi bagliori,

e il cavallo che monta Santiago

era un astro di vivo splendore.

Dice l’uomo che narra la storia

che si udì nella notte assopita

un frullare argentato di ali

che il silenzio portò con le onde.

Cosa è stato a fermare quel fiume?

Erano angeli i bei cavalieri.

O bambini, cantate nel prato,

traforando col ridere il vento!

E' una notte di luna calante.

Zitti! cosa si sente nel cielo,

che qui i grilli rinforzano gli archi,

ed abbaiano i cani dei campi?

- Nonna cara, per dove è il cammino,

nonna cara, che io non lo vedo?

- Guarda bene, e vedrai una striscia

di pulviscolo come farina,

una macchia che pare d’argento

o di perla. La vedi?

- La vedo.

Nonna cara, ma dove è Santiago?

- è lassù che cammina in corteo,

con la testa coperta di piume

ed il corpo di perle preziose,

ai suoi piedi si è arresa la luna,

tiene il sole nascosto nel petto.

Questa notte si sente nel piano

il narrare brumoso del canto.

O bambini, cantate nel prato,

traforando col ridere il vento!

Una vecchia che vive in miseria

nella parte più alta del borgo,

che possiede un’inutile rocca,

una vergine e due gatti neri,

mentre fa la sua ruvida calza

con le dita smagrite e tremanti,

circondata da brave comari

e da sudici vispi bambini,

nella placida notte tranquilla,

con i monti perduti nel buio,

va narrando con lente cadenze

la visione che ebbe ai suoi tempi.

Lei lo vide, una notte lontana

come questa, né suoni né vento,

lei lo vide Santiago beato,

pellegrino nei lidi del cielo.

-E, comare, com’era vestito?

-le domandano in coro due voci.

-Con bordone di perle e smeraldi

e una tunica in panno velluto.

Quando lui ha varcato la porta,

le colombe hanno aperto le ali

e il mio cane, che stava dormendo,

l’ha seguito leccando le orme.

Era dolce l’Apostolo santo,

dolce più che la luna in gennaio.

Nel passare lasciò sul sentiero

un profumo di giglio e d’incenso.

-E, comare, non ti ha detto nulla?

-le domandano in coro due voci.

-Mi ha sorriso passandomi accanto,

mi ha lasciato qui dentro una stella.

-Dove tieni nascosta la stella?

-le domanda un bambino curioso.

-Ti si è spenta - le chiedono altri -

come il frutto di un incantamento?

-No, bambini, la stella risplende,

me la porto rinchiusa nel cuore.

- E quaggiù, come sono le stelle?

-Bimbo mio, sono come nel cielo.

-Su continua, o vecchia comare.

Dove andava il viandante glorioso?

-Si perdette per quelle montagne

con le bianche colombe ed il cane.

Ma lasciò tutta piena la casa

di garofani rose e viole,

sulla pergola l’uva matura,

che era verde, e il mattino seguente

ho trovato ricolmo il granaio.

Questo ha fatto l’Apostolo buono.

-Che fortuna hai avuto, comare!

-si pronunciano insieme due voci.

I bambini già stanno dormendo

ed i campi in profondo silenzio.

O bambini, pensate a Santiago

sui confusi cammini del sogno!

Notte chiara, di fine di luglio!

E’ passato Santiago nel cielo!

La tristezza che tiene il mio cuore,

io la lascio sul bianco sentiero,

chissà mai che la trovino i bimbi

e la mandino a fondo nell’acqua,

chissà mai che nel cielo stellato

via, lontano la portino i venti.

Perché traduco le poesie


Perché traduco poesie? Lo faccio, da sempre, per mio solo piacere. Mai pubblicato niente, se non qualche volta in qualche forum e adesso qui sul blog. Per me tradurre è il modo più profondo per leggere. Non traduco sempre: se esiste una buona traduzione mi basta quella e non mi viene voglia di rifarla. Ma questo capita molto di rado. Quali sono le caratteristiche che fanno, ai miei occhi, una buona traduzione?
Prima di tutto la musica e il ritmo. Detesto quelle traduzioni in cui non c'è più l'ombra del ritmo originale, o peggio che hanno un ritmo spezzettato, incoerente, tutto sobbalzi. Sembra una cosa da niente, invece il ritmo è l'essenza della poesia.
Perché?
Me lo sono chiesta molte volte. Penso che sia perché il ritmo è qualcosa di primordiale, una forma di comunicazione che va a colpo sicuro, che ci dice che le cose sono come devono essere.
Il ritmo è il lavoro fatto bene, come diceva Vitamina in uno dei suoi post (che se mi legge per favore mi può dire dove così cerco di mettere il link). Parlava del lavoro, di come è bello fare bene un lavoro, non importa se è un lavoro semplice e apparentemente modesto: Vitamina diceva che se fai bene quel tuo piccolo lavoro allora senti che sei in consonanza con altri che fanno altri lavori, e tutti insieme sono un gran bel vedere.
Ecco, credo che la poesia ben fatta sia un lavoro ben fatto, che ci mette in consonanza col mondo e con le persone. Ma se si toglie il ritmo, come si fa a con-sonare?



martedì 3 maggio 2011

Dedicato a Nedo


Federico Garcia Lorca

Lamento per Ignacio Sanchez Mejias

Traduzione di Paola Magi

1 – L’incornata e la morte

Alle cinque della sera.

Era alle cinque in punto della sera.

Un ragazzo portò il lenzuolo bianco

alle cinque della sera.

Una cesta di calce era già pronta

alle cinque della sera.

Tutto il resto era morte e solo morte

alle cinque della sera.

Il vento si portò via le lanugini

alle cinque della sera.

L’ossido seminò cristallo e nichel

alle cinque della sera.

Già lotta la colomba col leopardo

alle cinque della sera.

La coscia con un corno desolato

alle cinque della sera.

Cominciarono i suoni di bordone

alle cinque della sera.

Le campane di arsenico e il fumo

alle cinque della sera.

E negli angoli gruppi di silenzio

alle cinque della sera.

E il toro, unico cuore alto levato!

alle cinque della sera.

Quando fu giunto il sudore di neve

alle cinque della sera.

Quando l’arena si coprì di iodio

alle cinque della sera.

E la morte covò nella ferita

alle cinque della sera.

Alle cinque della sera.

Era alle cinque in punto della sera.

Un catafalco con le ruote è il letto

alle cinque della sera.

Ossa e flauti gli suonano all’orecchio

alle cinque della sera.

Il toro già muggiva dalla fronte

alle cinque della sera.

La stanza s’iridava d’agonia

alle cinque della sera.

Da lontano già arriva la cancrena

alle cinque della sera.

Tromba di giglio per gl’inguini verdi

alle cinque della sera.

Ardono come soli le ferite

alle cinque della sera,

e la folla rompeva le finestre

alle cinque della sera.

Alle cinque della sera.

Ahi, terribili cinque della sera!

Era alle cinque in tutti gli orologi!

Era alle cinque all’ombra della sera!

2 – Il sangue versato

Non voglio vederlo!

Di’ alla luna di affacciarsi,

non voglio vedere il sangue

d’Ignazio sopra l’arena.

Non voglio vederlo!

La luna là, spalancata,

cavallo di nubi quiete,

l’arena grigia del sogno

coi salici sui recinti.

Non voglio vederlo!

Il mio ricordo si brucia.

Avvisate i gelsomini,

con quel biancore piccino!

Non voglio vederlo!

La vacca del vecchio mondo

passava la lingua triste

su un muso sporco di sangue

rovesciato sull’arena,

mentre i tori di Guisando,

quasi morte e quasi pietra,

come due secoli mugghiano

stanchi di battere in terra.

No

che non voglio vederlo!

Sale sui gradini Ignazio,

tutta la sua morte al fianco.

Cerca la luce dell’alba

ma luce d’alba non trova.

Cerca il suo saldo profilo

e il sogno lo disorienta.

Cerca il suo corpo armonioso,

e trova il suo sangue aperto.

Non ditemi di vederlo!

Non voglio sentire il fiotto

ogni volta meno forte;

questo fiotto che riverbera

sugli spalti e si rovescia

sopra il velluto ed il cuoio

di questa folla assetata.

Chi mi grida di affacciarmi?

Non ditemi di vederlo!

Non si chiusero i suoi occhi

vedendo il corno vicino,

ma le terribili madri

sollevarono la testa.

E dalle mandrie venne

un vento di voci segrete,

gridate ai tori celesti

mandriani di nebbia pallida.

Non fu principe in Siviglia

degno di dirsi suo pari,

né spada come la sua

né cuore tanto sincero.

Come un fiume di leoni

la sua mirabile forza,

e come un torso di marmo

la sua prudenza armoniosa.

Aria di Roma andalusa

indorava la sua testa

la cui risata era un nardo

di sale e d’intelligenza.

Che grande torero in piazza!

Che montanaro sui monti!

Che tenero con le spighe!

Che duro con gli speroni!

Che dolce con la rugiada!

Che splendido nella festa!

Che tremendo, con le ultime

sue banderillas di tenebra.

Ma dorme un sonno infinito.

Aprono già l’erba e il muschio

con dita senza incertezze

la corolla del suo cranio.

E il suo sangue già viene cantando:

cantando per paludi e praterie,

inciampando su corna infreddolite,

vacillando senz’anima fra nebbie

urtando negli zoccoli a migliaia

come una larga, scura, triste lingua,

per formare una chiazza d’agonia

vicino al Guadalquivir delle stelle.

Oh bianco muro di Spagna!

Oh nero toro di pena!

Oh duro sangue di Ignazio!

Oh, usignolo delle vene!

No.

Che non voglio vederlo!

Che non v’è calice che lo contenga,

Che non v’è rondine che se lo beva,

Che non v’è brina di luce a gelarlo,

Che non v’è canto o diluvio di gigli,

non v’è cristallo a coprirlo d’argento.

No.

Io non voglio vederlo!

3 – Corpo presente

E’ una fronte, la pietra, dove gemono i sogni

senza avere acqua curva né cipressi gelati.

E’ una schiena, la pietra, per trasportare il tempo

con alberi di lacrime, con nastri, e pianeti.

Ho visto pioggie grigie correre verso l’onda

sollevando le molli braccia tutte forate,

per non essere prese dalla pietra posata

che ne scioglie le membra senza assorbire il sangue.

Perché la pietra prende le sementi e le nubi,

gli scheletri d’allodole e i lupi di penombra,

però non rende suoni, né cristalli, né fuoco,

solo arene, e arene, e arene senza muri.

Ora sta sulla pietra Ignazio, il nato bene.

E’ finito. Che accade? Guardate la sua forma:

La morte l’ha coperta di zolfo biancheggiante

E le ha dato una testa di oscuro minotauro.

E’ finito. La pioggia gli penetra la bocca

e l’aria come folle lascia il suo petto arreso.

e l’Amore, spugnato di lacrime di neve,

cerca il calore sopra la cima delle stalle.

Che dicono? un silenzio con i miasmi riposa.

Siamo qui con un corpo presente che si sfuma,

con una forma chiara che aveva gli usignoli

e la vediamo empirsi di buchi senza fondo.

Chi stropiccia il sudario? E’ falso quel che dice!

Nessuno sta cantando, né piange in un cantone,

non preme gli speroni, non spaventa il serpente:

qui non voglio nient’altro che occhi spalancati

per vedere quel corpo che non può riposare.

Voglio vedere gli uomini, qui, dalla voce dura.

Che domano i cavalli, che dominano i fiumi:

gli uomini cui le ossa risuonano, cantanti

con una bocca piena di sole e di granito.

Io qui voglio vederli davanti a questa pietra.

Davanti a questo corpo dalle risa spezzate.

Io voglio farmi dire per dove sia la via

per questo capitano legato dalla morte.

Io voglio che mi insegnino un pianto come un fiume

pieno di dolci nebbie e riviere profonde,

per trasportare il corpo d’Ignazio, che si perda

senza ascoltare il duplice respiro dei tori.

Si perda nell’arena rotonda della luna

che nascente somiglia a un triste muso fermo;

si perda nella notte senza canto dei pesci

nelle sterpaglie bianche del fumo congelato.

Non voglio che gli coprano il volto con pezzuole

perché possa avvezzarsi alla morte che porta.

Ignazio, non sentire il mugghio caldo. Vai.

Dormi, vola, riposa: perfino il mare muore!

4 – Anima assente

Non ti conosce il toro e la ficaia,

né i cavalli e le formiche di casa.

Non ti conosce il bimbo né la sera

perché tu adesso sei morto per sempre.

Non ti conosce il dorso della pietra,

né il raso nero in cui ti dissolvi.

Non ti conosce il tuo ricordo muto

perché tu adesso sei morto per sempre.

L’autunno tornerà con le lumache,

l’uva di nebbia e i monti raggruppati,

ma nessuno ti guarderà negli occhi

perché tu adesso sei morto per sempre.

Perché tu adesso sei morto per sempre,

proprio come ogni morto della terra,

proprio come ogni morto che si oblìa

in un mucchio di cani silenziosi.

Nessuno ti conosce. No. Ma io ti canto.

La tua grazia io canto al futuro, il tuo profilo.

La maturità insigne della tua conoscenza.

La tua voglia di morte, e il gusto del tuo labbro.

La tristezza che aveva la tua fiera allegria.

Tarderà molto a nascere, se nascerà mai,

un andaluso tanto limpido e valoroso.

Canto la sua eleganza con parole gementi

e ricordo una brezza dolente fra gli olivi.